
A 11 anni lasciai la prima volta Castel Trosino, una gelida mattina di novembre.
Alle cinque era ancora buio, ma l’aria era tersa e nel cielo le stelle brillavano più che mai.
Col cuore gonfio di tristezza e gli occhi pieni di lacrime, percorrevo la strada brecciata verso Ascoli, per poi proseguire verso un luogo sconosciuto.
Mi ritrovai in un paese lontano, più bello, più grande di Castel Trosino, ma soprattutto diverso: terra pianeggiante, strade diritte, case allineate, belle, pulite, intonacate.
Sulle vie s’affacciavano grandi finestre e, sotto, negozi con belle vetrine. Al centro l’ampia piazza era dominata da una chiesa moderna e, di fronte, dal municipio, un elegante palazzo, con un grande balcone.
Anche le persone mi parvero distinte nel vestire e nei modi, anche se il loro parlare mi era incomprensibile e ridicolo nelle cadenze.
“ Sciura Maria….. Sciura Elisabètta…… Sior Mauro….” sentivo che si appellavano fra loro ed io restavo intimidito e deferente da tanta grazia e cortesia.
A me più che un paese sembrò una grande città e ne restai ammirato.
Niente a che vedere con Castel Trosino: quel nucleo di vecchie case, abbarbicate sullo scoglio a precipizio sul vuoto, addossate l’una all’altra, come un gregge di pecore grigie; quel borgo antico, dalle “rue” strette ed oscure , contorte, cieche, dal selciato sconnesso, dai muri neri d’età e duri di pietre, incisi da porte e finestre irregolari, più alte, più basse, più strette, un po’ storte, a volte cadenti;
quel borgo, rifugio e dimora di povera gente, dal volto precocemente rugoso, dalle braccia nodose, dalle mani callose, segnate dalla fatica quotidiana della terra, del bosco e della cava.
Il confronto fra l’antico e il moderno favoriva, ai miei occhi di ragazzo, decisamente il secondo.
Tanto che un giorno ingenuamente me ne vergognai!
Fu quando venne in classe il Segretario della scuola: testa fine, occhiali piccoli e tondi.
“ Ci sono dei dati di qualcuno da correggere!” – sentenziò.
Poi girò gli occhi scrutatori sulla classe e si fermò su di me. Il sangue mi si gelò!
“ Tu!…… dove sei nato? – mi apostrofò – forse ad Ascoli Piceno?-
“ No! – risposi intimorito. – Al mio paese.”
Tutti i compagni risero sonoramente di me ed anche il Segretario. Poi continuò:
“ Qui c’è scritto: Castel…. Castel….. Tronsino.”
Tutti risero ancora ed io provai tanta vergogna e rabbia. Dire “ Castel Tronsino” non era la stessa cosa che dire “ Castel di Sangro” o “ Castel Bolognese” o “ Castel del Monte”.
“ CASTEL TRO- SI- NO “ – corressi io timoroso.
“ Ho capito: Castel Trosino”- sentenziò ancora il Segretario. – Bah! Ma questo Castel…Trosino non esiste! Non è scritto da nessuna parte! – concluse.
Mi feci forza e replicai: “ Sì! Esiste: ci sono nato io! Sta vicino ad Ascoli Piceno!”
“ Ah! – ironizzò egli – ma credo che tu non sia ancora un personaggio famoso, né lo diventerai mai! Diciamo allora che sei nato ad Ascoli Piceno”.
Umiliato come un ladro, mi misi a sedere e non risposi; avevo tanta voglia di piangere.
Ma se ora fosse qui quel piccolo segretario ignorante, gli griderei in faccia:
“ Brutto imbecille! Vai a studiare la storia, la storia dei Longobardi, quel grande popolo che ha conquistato l’Impero Romano, che ha fondato il Ducato di Spoleto. Vai a cercare su Internet per restare interdetto e basito di fronte alla grandezza di Castel Trosino, alla sua bellezza, alla sua posizione ineguagliabile, alla sua storia, ai suoi tesori!
A Castel Trosino ci sono stati Re e Regine, Duchi e Marchesi. Certo! La Regina Teresina e il Re Manfrino! Sai tu chi era il Re Manfrino? Era Manfredi, il figlio del grande Imperatore Federico 2°, nipote di Federico Barbarossa, della nobile casata degli Hohenstaufen di Germania.
Dentro le sue mura hanno combattuto eserciti valorosi ed anche i briganti Piccinini e Costantini che non erano poi briganti come pensi tu, ma eroi che amavano il popolo. Mentre al tuo paese sono nati personaggi di quattro soldi, come te!”
Poi venne l’inverno e quel paese cominciò ad apparirmi monotono. Conobbi la nebbia persistente ed uggiosa, che rendeva il trascorrere dei giorni alquanto triste.
Solo l’aria natalizia di dicembre e le illuminazioni delle vie risvegliarono l’interesse per quel paese. L’animo si rallegrò e l’ammirazione riprese vigore.
Anche la primavera fu una bella stagione. Il sole e il tepore dell’aria fecero rifiorire la campagna che mostrò tutta la sua vitalità, la feracità del terreno e la sua bellezza.
Il vigore dei campi di grano e la prepotente fioritura degli alberi da frutto rallegravano la vista e diffondevano un gradevole profumo.
Ma al sopraggiungere dell’estate le cose cambiarono.
Il sole, cocente di giorno, lasciava un’afa pesante la sera. Il fiumicello che lambiva il paese, stagnava pigro nei meandri del suo letto. La poca acqua, imputridita dalle erbe acquatiche, diffondeva un’aria mefitica insopportabile. La notte era tutto un gracidare di rane e un luccichio di lucciole.
Ma il vero tormento erano le zanzare, che nelle acque stagnanti trovavano il terreno di cultura, si diffondevano poi nell’aria e mi aggredivano giorno e notte, arrivando persino sotto le lenzuola.
Mi salvai tornando a Castel Trosino a passare le vacanze in seno alla mia famiglia.
Qui ritrovai l’aria fresca ed asciutta della notte e il piacere delle lunghe dormite fino alle dieci del mattino.
Ebbi subito un facile successo fra i miei vecchi compagni e compagne, perché ora, avendo dimenticato il mio dialetto, parlavo un italiano corretto, per di più impreziosito da un accento del tutto nuovo, che suscitava ammirazione. Ciò che più mi lusingava era il nuovo interesse che suscitavo fra le ragazze coetanee, le quali si contendevano la mia amicizia.
Però cominciai presto a riprendere le vecchie abitudini e soprattutto mi riappropriai del caro dialetto, perdendo quel carisma, che già mi aveva tanto inorgoglito.
Partecipavo a tutti i vecchi giochi con un entusiasmo straordinario.
Giocando ad “ Acchiappabandiera “ correvamo forsennati sui viottoli fra le case e sui sentieri fra gli orti, giungendo fino a “ Fontallà di Sopra “, anzi fino alle “ Case Rosse “, ripassando poi per la strada sassosa delle cave, nel bosco di “Nzaletta “, per non essere avvistati dalla squadra avversaria, anzi per sorprenderla con la conquista della “ bandiera “.
Poi ci radunavamo per solito in un prato erboso, dove le lavandaie stendevano i panni al sole e lì ci sfidavamo alla “ lotta “ , nella quale venivano profuse tutte le astuzie e tutte le energie che avevamo in corpo, nell’intendo di gettare a terra l’avversario, fino ad immobilizzarlo.
Questo gioco pur non essendo particolarmente violento, poteva avere conseguenze dolorose allorché uno o entrambi i contendenti riportavano lacerazioni ai vestiti o qualche ecchimosi sul volto. Tornando a casa con questi segni vistosi, le nostre madri non sapevano trovare altro rimedio se non quello di una solenne bastonatura.
Altra usanza che ripresi con estremo piacere fu quella di girovagare nel bosco in cerca di nidi, situati per lo più sui rami più alti delle querce, su cui noi ci arrampicavamo, aggrappandoci al tronco rasposo con le mani e i piedi nudi, riportando sanguinose escoriazioni, specie fra le cosce.
Nel bosco talvolta avvenivano incontri amorosi con le nostre compagne, le quali, conoscendo le nostre abitudini, si facevano trovare in una radura erbosa chiamata “ Piadazzè “, a raccogliere margherite o nel sottobosco in cerca di ciclamini e primule.
Si parlava, si giocava, si manifestavano simpatie, si formavano coppie, si creavano insomma i presupposti per i grandi amori futuri.
Ma il “ Piadazzè “ va ricordato soprattutto perché è stato da sempre il luogo mitico della gioventù castrense, la palestra per l’addestramento fisico, morale e civile di tutti i giovani locali, perché qui si giocava a pallone!
Il “ Piadazzè “ non era un campo di calcio, bensì una radura, dalla forma irregolare, come una ameba. Su tre lati era limitato dal bosco di querce sull’altro da un muro a secco di pietra, che terminava con un enorme masso di travertino, che invadeva il campo per almeno 3 – 4 metri.
Questo masso era parte integrante del campo, se si decideva di giocare di sponda, altrimenti era out. Il nostro calcio a quei tempi era un gioco da poveri: si giocava senza arbitro, senza regole, senza scarpe, senza un preciso numero di giocatori, talvolta anche senza pallone; chi ne possedeva uno era padrone e imponeva le sue regole agli altri, a pena del ritiro immediato di quello strumento così prezioso. Ma spesso la gara continuava con una palla di stracci e il problema era risolto.
Quel fantomatico campo, benché mancante delle cose più essenziali, è stato un campo fortunato poiché la sua erba è stata calpestata dai nomi più gloriosi del calcio italiano: Piola, Mazzola, Schiaffino,
Greeves, Bacicalupo, Lorenzi ( testina d’oro!), che gli atleti locali si attribuivano, sognando di ripetere le gesta di quegli eroi.
Le gare più importanti erano gli accesi derby con Rosara, con Piagge e soprattutto con Porta Cartara ( tutte squadre che non possedevano neppure un campo).
Per lo più si giocava la domenica. Durata della gara: tutto il pomeriggio, con inizio alle ore due e termine a buio inoltrato. Si poteva iniziare 3 contro 3 e poi continuare 11 contro 11. Le interruzioni erano frequenti a causa di discussioni, litigi, se non proprio scazzottate. Ricordo una interruzione di un’ora, causata dal fumo intenso provocato dai sabotatori, che erano stati esclusi dalla gara.
Con uguale piacere ripresi i bagni nel Castellano, il torrente che da secoli, bianco e spumeggiante si scava il percorso tortuoso tra massi e rocce, ma di color verde intenso allorché, dopo il salto dalla briglia, riprende a scorrere tranquillo. Qui dove l’acqua è più calma e profonda, noi amavamo nuotare, dopo un tuffo ardito da quel trampolino di pietra, che permetteva ai più bravi di riportare in superficie un sasso, come prova della propria bravura.
L’acqua fresca dei Monti della Laga, cui sotto Castel Trosino si mescolava l’acqua sulfurea delle sorgenti salmacine, recava un grande sollievo alla calura estiva.
In genere in acqua si giocava, si facevano gare di velocità e anche scherzi . Ma noi più piccoli avevamo attimi di terrore quando i compagni più grandi ci afferravano, sollevandoci in aria e ci gettavano in acqua dall’alto della briglia, per ridere poi della nostra disperazione.
Alla fine, stanchi, salivamo sui massi di travertino, dalla superficie perfettamente levigata dal millenario scorrere della corrente e qui, naturalmente nudi, senza vergogna né pudore, come piccoli angeli, stendevamo ad asciugare al sole i nostri corpi magri scheletriti, ( da potersi contare le costole), ma sodi e ben torniti nella muscolatura delle natiche e delle cosce.
Noi di Casette, o meglio di “ Fontallà “, frazione dove era concentrata l’attività delle lavandaie, per l’abbondanza delle sorgenti d’acqua e dei lavatoi, andavamo in paese in genere per la messa domenicale e per la dottrina. Della messa ho tanti ricordi importanti, che però tralascio; mentre per la dottrina sarebbe un delitto non ricordare quella santa anima di “ ‘Ntonina”, la catechista ufficiale della parrocchia. “ ‘Ntonina “ ha lasciato nel mio cuore un ricordo indelebile di simpatia e tenerezza.
‘Ntonina era l’emblema della bontà e del senso del dovere, mentre noi ragazzi eravamo delle vere teppe. Ella era tanto buona e compassionevole che quando interrogava era pronta a suggerire lei stessa almeno una metà delle risposte a quelli che non sapevano nulla ed erano i più.
Lei pur cosciente di non essere in grado di tenere a freno quegli scalmanati, accettava ogni anno quell’incarico per senso del dovere, ma che le arrecava tante pene e preoccupazioni, rovinandole la salute, già di per sé tanto precaria.
La povera ‘Ntonina era donna minuta , piuttosto anziana e nonostante usasse occhiali con grosse lenti, vedeva poco o niente. Noi approfittavamo della sua cecità, per parlare, bisticciare e farci dispetti l’un l’altro, accusando poi ipocritamente i compagni più buoni e più bravi.
Lei intuendo la verità, ci pregava, anzi ci implorava di fare i buoni e di stare attenti. Tutto inutile!
Quando poi, dopo ripetute preghiere, non ne poteva più, ci picchiava.
Il colpevole si portava davanti a lei, con le braccia a protezione della testa e la schiena piegata e la cara ‘Ntonina menava con entrambe le mani, con una violenza e una cattiveria tali da far sganasciare dalle risate tutti noi presenti e ancor più il malcapitato delinquente.
Alla fine la povera donna, rossa in faccia ed affaticata, quasi piangendo, si scusava dicendo che lei mai avrebbe voluto dare una sì grave punizione e chiedeva pubblicamente perdono a Dio e alla cara Madonna.
Cara ‘Ntonina, sento ancora oggi il dovere, a nome di tutti quei ragazzacci, di ringraziarti per averci dato questo grande esempio di bontà e comprensione!
Delle lavandaie di Castel Trosino, del lavoro delle cave, dei personaggi caratteristici d’un tempo i ricordi sono così tanti che potremmo riempire un bel volume. Teniamo tutto da parte, come impegno futuro.
Alcuni giorni prima del termine della vacanza estiva, mio padre mi portò sulla montagna e precisamente al “ Colle Piro “, dove possedeva un piccolo appezzamento di terra, in cui aveva piantato le patate. La sera avanti m’aveva detto: “ Domani, verso le cinque, prendi i sacchi che t’ho preparato e vai a Colle Piro. Aspettami lì, che io vengo direttamente dalla cava. Poi caveremo le patate.”
Il giorno seguente, presi i sacchi e partii. Mamma volle aggiungere una fetta di pane spalmata di sugna per la merenda.
Abbandonata la strada provinciale, presi il sentiero verso la montagna e nonostante il sole fosse ancora cocente e il sentiero ripido e faticoso, dopo una mezz’ora, arrivai a Colle Piro e alla nostra terra. Poiché babbo non era ancora arrivato, pensai bene d’andarmi a dissetare presso una sorgente d’acqua fresca vicino al fosso, poi decisi di fare merenda.
Mi misi a sedere per terra e cominciai a mangiare quel pane profumato di rosmarino, d’aglio e di scorza d’arancio.
Masticavo lentamente ed intanto giravo lo sguardo su quello scenario straordinario che avevo davanti: l’intera vallata del Castellano.
Circondato dai Monti della Laga e dai Sibillini, dal Pizzo di Sevo e dal Monte Vettore, dall’Ascensione e dalla Montagna dei Fiori, con il Colle della Luna di fianco, S.Giorgio di fronte, il Colle S.Marco e la Cerita alle spalle, mi sentivo al centro dell’universo.
Respiravo a pieni polmoni l’aria fresca e pura e mi sentivo inebriato da una sensazione inesprimibile di leggerezza e libertà.
Quelle montagne scoscese, segnate da fossi e ruscelli, quelle selve di querce, quelle radure assolate, quei massi di travertino, diruti nei millenni sui pendii franosi e sparsi sulle balze, quelle
“ vene “ di roccia possente a sostegno delle cime dei colli; quel torrente selvaggio laggiù, nel fondo della valle, sassoso, sfuggente, sinuoso; quel pugno di case infine, piantate sulla rocca ardimentosa e superba, che si erge al centro del fiume, a guardia del suo territorio, suscitavano in me molteplici sentimenti di fierezza, di potenza, di sicurezza, di soddisfazione per quell’ambiente unico ed ineguagliabile, che sentivo mio.
Giunse infine mio padre, stanco sicuramente ma deciso nell’affrontare quest’altra fatica.
Io l’aiutai a raccogliere le patate e a riempire i sacchi.
Era quasi buio quando ci avviammo giù per il sentiero ghiaioso, verso casa, col nostro sacco sulle spalle, il mio più piccolo, il suo più pesante.
Nonostante la fatica, mentre camminavo saltando da un sasso all’altro, mi si riproponevano gli stessi pensieri, gli stessi sentimenti: la felicità e l’orgoglio di essere nato e di vivere in quel luogo, in quell’ambiente, in quella famiglia: Castel Trosino, terra dei Longobardi!